STOP AND GO
DIALETTICHE DEL MOVIMENTO TRA FUMETTO E CINEMA
Il divenire transmediale di fumetti e film
Cinema e fumetto sono media eccellenti del divertimento, della passione accesa fra desiderio e immagine. Attivano modalità del sentire e del conoscere riconducibili allo schiudere occhi allibiti, meravigliati, davanti alla varietà dell’esistenza che le immagini di tali media fanno scorrere incaricandosi di rappresentarla artisticamente. Inestricabilmente collegati, dal tempo delle loro origini comuni (anche cronologicamente), cinema e fumetto mettono spesso in serie difficoltà le teorie e i concetti con cui si tenta di definire le caratteristiche del loro funzionamento mediologico.
Il cinema coinvolge profondamente lo sguardo dello spettatore e lo avvolge in una esperienza, speculare alle immagini sonore in movimento sullo schermo, che ha la capacità di essere quasi alternativa alla percezione e all’esperienza del mondo «esterno» condiviso con gli altri.
Le immagini apparentemente silenziose e le vignette dei fumetti, invece, compongono racconti visivi esteriormente statici ma in grado di generare percezioni mentali che ricostruiscono un movimento delle figure disegnate; a differenza del cinema che si struttura su una base fotografica dell’immagine, alla quale la tecnica filmica conferisce l’apparenza di un movimento proprio, il quale dà la fisionomia spazio-temporalizzata dell’immagine stessa, i disegni dei fumetti riportano invece schemi grafici di cose, oggetti, ambienti, persone il cui movimento non è insito negli schemi grafici stessi, se non assai indirettamente e virtualmente. Segmentato nei suoi istanti privilegiati, significativi, il movimento nei comics viene percepito nella successione, ordinata e impaginata, dei disegni o nella trama – anch’essa spazio-temporale – strutturata fra disegni e scrittura.
Questi due media così importanti della cultura moderna, postmoderna e, oggi, post-umana, sono differenti non solo per le modalità tecnico-produttive e semiotiche per cui le immagini e i suoni comunicano (il cinema per l’immersione proiettiva dentro immagini in sé stesse dinamiche; il fumetto per l’articolazione segmentata di un movimento ricomposto nella sequenzialità dei disegni e nell’interscambio fra scrittura dei balloons e immagine), bensì anche per la diversa posizione assunta dai propri consumatori nel finish del processo comunicativo.
Sul piano delle diverse procedure tecnico-produttive: da un lato, il cinema presenta (sia nel lungo periodo delle tecnologie analogiche, sia oggi nel già lungo periodo – una quarantina d’anni – delle tecnologie digitali) una complessa organizzazione tecnico-produttiva, di tipo industriale, e poi post-industriale, per gestire un’attrezzatura stratificata fra pre-produzione, produzione e post-produzione; dall’altro il fumetto ha richiesto da subito una infrastruttura di tipo editoriale che, tuttavia, nel lungo tempo della sua evoluzione storica, si è concentrata, con diverse maniere, sulla competenza individuale di scrittori e disegnatori, lasciando alla sfera tecnico-editoriale gli aspetti di confezione del prodotto finale.
Sul piano delle modalità di consumo: per un lungo periodo (dall’inizio del Novecento a tutti gli anni Ottanta) la modalità di consumo del cinema si afferma su una base collettiva e sociale (grazie alle reti di sale territoriali, specialmente nell’area metropolitana), mentre quella del fumetto si salda ai circuiti distributivi dell’informazione giornalistica e dell’editoria popolare; negli ultimi decenni, durante i quali l’affermazione dei media digitali (specialmente di rete) ha trasformato l’assetto del sistema generale dei media, il cinema ha radicalmente cambiato i propri sistemi produttivi e di consumo; questi ultimi tuttavia conservano larghi margini di condivisione sociale e di cultura pubblica (con una interazione assai significativa di forme di socializzazione e altre di individualizzazione), mentre il fumetto ha subito grandi riduzioni quantitative delle forme produttive e, correlativamente, di consumo. Queste ultime si sono ulteriormente sezionate e, in questa complessa riconversione, si è affermata la convergenza fra editoria libraria e editoria di qualità, con il successo del graphic novel.
Eppure, nonostante queste differenti modalità, le competenze del pubblico di cinema e quelle dei lettori di comics si accomunano per l’omogeneità delle sfere cognitive ed emotive correlate, in definitiva concorrendo insieme a una medesima sfera culturale e mediologica e a un immaginario comune. Il legame fra questi due media nell’epoca pre-digitale e, ancor più, nell’era digitale, ha procurato, e tuttora provoca, occasioni di trasposizioni e adattamenti e altresì di sfida e di competizione che segnano la creatività sia di ieri che di oggi. Ma qual è il motivo profondo del loro rapporto?
L’emozione primaria nella lettura dei fumetti è legata al processo percettivo-conoscitivo per cui l’immagine da statica è vissuta e riavvitata nel collegamento, intratestuale, fra vignetta e vignetta, e in quello, intertestuale, fra disegno e scrittura. È in tal modo che il fumetto diviene un racconto audiovisivo in movimento, sia pure nella virtualità prodotta nella mente dei lettori; qui risiede il nucleo più importante della parentela, dell’affinità profonda, fra cinema e fumetto, ed è esso che li rende media non soltanto storicamente affiatati e affiliati. È la dislocazione dell’immagine fra spazio e tempo dinamico nel cinema, o viceversa fra spazio e tempo segmentato e inter-semiotico del fumetto, a tracciare la linea cognitiva/emozionale e a consolidare la polla culturale grazie a cui scaturisce una infinita serie di relazioni transmediali e intermediali, stringenti e necessarie, fra questi due ambiti di comunicazione.
A tale nucleo va principalmente ricondotta la loro capacità – potremmo dire: la responsabilità – di caratterizzare la cultura visiva e narrativa dei due decenni appena passati del XXI secolo. Oggi – all’avvio del terzo decennio del Terzo Millennio d.C. – quella polla mediologica e culturale è saldata con modelli cognitivi/emozionali, dalle radicate prospettive filosofiche e mitologiche, che consentono a ciascuno di noi di vivere interamente il proprio tempo.
Il movimento tecnico del cinema è mirato dai fumetti come un proprio, ineguagliabile, «doppio» in grado di praticare ogni obbiettivo di visualizzazione narrativa e dinamica grazie alla sua potenza tecnologica-spettacolare; mentre la libertà fantastica del fumetto è irresistibilmente osservata dal cinema come origine di una qualità audiovisiva e di un mondo narrativo fuori da qualsiasi condizionamento. In sintesi: il cinema fornisce al fumetto regole tramite cui il movimento delle immagini diviene storia e racconto, come una sorta di «manuale formativo» della struttura mitologica che sostiene il montaggio fra vignette, parole e suoni. Il fumetto, dal suo canto, tocca dimensioni della fantasia che la tecnologia del cinema non sempre ha reso visibili, figurabili, percepibili, con la medesima forza e pregnanza.
La costante sfida fra i due media è la gara fra il disegno fissato e stampato sulla carta, in sequenze narrative, e l’immagine sonora in movimento ingrandita sullo schermo. Dagli anni trenta almeno (ma già dai primi due decenni del XX secolo), l’immaginario audiovisivo del cinema si nutre del bacino di storie e di personaggi prestato dai fumetti, mentre questi a loro volta adeguano l’ordine delle vignette, la visualizzazione in bianco-nero e poi – dagli anni cinquanta – i cromatismi tipicamente pop delle figure a impaginazioni funzionali a simulare il movimento filmico, a rendere vivido il glamour dei corpi disegnati, come scesi dallo schermo e fissati sulle pagine.
Nello sviluppo della qualità grafica dei fumetti, dagli anni Sessanta a oggi, che ha attraversato le stagioni della pop art, dell’arte astratta, dell’iperrealismo e del graphic novel d’autore, il «vecchio glamour» dei disegni dei corpi si è trasformato nella vivida galleria dei tratti ombrosamente, cromaticamente, schizzati dei pennelli e delle chiazze simboliche che, oggi, danno a disegni talvolta appena accennati il valore segnico sufficiente a delineare figure umane e paesaggi naturali o architettonici, habitat e spaziature visive.
Successioni simultanee
Quando si parla di stasi e movimento (stop and go) nei fumetti non si deve intendere solo la percezione del passaggio dal fermo-immagine alla dinamica audio-visiva, ma anche una costruzione volutamente fluida del significato complessivo e dell’intreccio dei segni disposti sulla tavola.
Fig. 1 - Stan Lee, John Buscema, Silver Surfer. |
Nei comics il movimento non si limita ai contesti di linearità sequenziale o di dimensionalità nello spazio e nel tempo; è anche prodotto dal bilico di velocità e surplace. Una bellissima tavola di John Buscema, presa da una classica storia di Silver Surfer, il cavaliere argenteo dello spazio cosmico ideato da Stan Lee, è la dimostrazione quasi sublime di quel che Ruggero Pierantoni ha chiamato, già vari decenni fa, la «forma fluens» (Pierantoni, 1986) di rappresentazioni fissate su supporti immobili eppure in grado di indurre la percezione di movimenti rapidi e scattanti.
Le linee cinetiche del disegno di John Buscema radicano l’evidenza visiva di una volumetria spaziale in cui il surfista argenteo dapprima è sbalzato, quasi precipitando in un abisso cosmico, poi all’interno di questo, nel passare di due sole vignette, riesce a trovare un punto di equilibrio, raccordando infine la posizione del corpo al movimento della tavola di surf. Anche quest’ultima vince l’iniziale condizione del proiettile smarrito e sbalzato, per superare, nell’ultima vignetta, l’intervallo che la distanzia dalla figura di Silver. Riunito alla sua tavola cosmica, il corpo di Silver esibisce una posizione prossima a quella dell’uomo vitruviano di Leonardo. L’avvitamento percettivo della dinamica visiva in questa stupenda tavola di Buscema compie l’intero tragitto dall’imminenza del caos e della perdita alla coordinazione armonica fra corpo e oggetto, spazio e tempo, velocità e rallentamento.
Esempio ulteriormente significativo del dinamismo dei fumetti diverso da quello sequenziale-tecnologico, vivamente immersivo, del cinema, è la competenza dei lettori di passare fra testo e figura dislocando la spaziatura e la temporalizzazione; spazio e figura, tempo e racconto, mentre si muovono secondo la linea mentale del movimento figurale-narrativo, si coordinano, si verificano, e fissano la forma che fornisce al fumetto il suo definitivo senso.
Nel 1947 l’insuperabile, Benito Jacovitti scrive e disegna un’avventura, intitolata Ciak!, dei suoi tipici personaggi buffi ed esilaranti. Con questa sua tipica «fantasia», Jacovitti racconta e di-spiega sulle tavole dei fumetti il movimento iperdimensionale del cinema, raggiungendo vette stupefacenti e realizzando un autentico capolavoro della cultura di massa dell’immediato secondo dopoguerra italiano.
Fig. 2 - Benito Jacovitti, Ciak! |
Nella tavola di Ciak! si vede distintamente che, dalla carta «piatta» che incornicia la tavola del fumetto, si stagliano, chiaramente percepite, altre segnature visive, come quella che ha la consistenza e il formato peculiare della pellicola del cinema, sollevata a una propria altezza (come si può dire: «circoncava»?), a sua volta costituita di fotogrammi-vignette. Attorno all’immagine nell’immagine della pellicola sono ulteriormente disposte fitte serie di figure (personaggi-attori?) semi-raggelate nella postazione semovente eppure fissa delle silhouette dei comics, le quali occupano lo spazio laterale ovvero sono vincolate ai bordi di illusori fotogrammi, che la pagina non disegna ma potenzialmente contiene, a loro volta concepibili come sezioni della pagina stessa. È una costituzione della pagina disegnata nella quale la successione delle figure non obbliga lo sguardo a direzioni precostituite ma lo sollecita a cogliere l’incrocio e l’intreccio fra durata e simultaneità. Meccanismo che questo grande autore di fumetti riprende dalla lunga storia dell’illustrazione e della caricatura, oltre che della figurazione occidentale e orientale.
Tale «successione simultanea» (vero e proprio, eppure credibile, ossimoro) è precisa figura metaforica di una ubiquità costitutiva dei fumetti; i quali non possono consistere – ovvero esistere – se non nel rinvio alle competenze di uno sguardo che tesse, nel tempo, il legame generativo fra il prima e il dopo dei disegni percepiti nell’immagine tabulare.
Questa posizione ubiqua dello sguardo appartiene alla soggettività dei lettori, che incarnano le figure dei fumetti in estensioni interne delle immagini, figure ri-create nel processo della loro percezione, ossia grazie a come esse stesse si generano nell’interiorità dei lettori medesimi. Leggere la tavola del fumetto si fonda sulla identificazione multipla dell’immagine, al di là del fatto che questa sia o no sequenziata in vignette. Nella grande tavola di Jacovitti, lo spazio visivo dell’immagine è sottomesso a una sventratura ma, anche, a una ricalibratura dinamica della percezione nello spazio-tempo; l’immagine è il risultato di come tutto corra da sinistra a destra o da sopra a sotto, ma anche viceversa, in un avvitamento percettivo che ha i suoi interni rallentamenti o le sue accelerazioni, senza, con ciò, che ne difetti la folle vertigine comica del risultato cognitivo.
Figurare la scrittura, scrivere l’immagine
Silenzio e rumore, vista e udito, vibrazione delle onde e figurazione; entro tali rapporti si conchiude l’intera espressività dei comics, almeno di quelli che hanno accompagnato la crescita, durante il Novecento, di varie generazioni di bambini e adolescenti. Ecco il senso definitivo del balloon (la nuvola entro la quale viene contenuto il segno che rende figurale la parola, al suo interno sfruttando al massimo grado l’operazione della scrittura di restituire come visione il suono grammaticalizzato e reso lessico, nelle sue diverse tonalità di alto, basso, sottovoce, epiteto, ecc.), e dell’onomatopea (il simbolo verbale che rende il suono nella sua gamma di frequenze, da quelle d’urto a quelle stridenti a quelle suadenti, alla violenza icastica dello sparo, dell’esplosione, del crash che sottolinea lo scontro e la mastodontica lotta di forze elementari, ecc.). Tutto qui?
Non si direbbe proprio, perché l’estensione figurale dei fumetti va oltre la voce, il suono e la musica, penetra cioè fino all’immateriale, alla filigrana dell’invisibile: il pensiero. Si vedano, prima di altre, poche vignette di Felix The Cat, il dolce felino nero, sempre amabile, lunare e innamorato, dovuto alla penna di Otto Messmer e ai film animati prodotti da Pat Sullivan. Il segno visivo dei fumetti tocca qui uno dei suoi vertici espressivi, ma lo fa in modo tanto ingegnoso e normale da passare quasi inosservato.
Fig. 3: Otto Messmer, Felix the Cat. |
Felix assai disinvoltamente usa i segni dei punti interrogativi; intanto occorre chiedersi questi punti a cosa servono, ovvero che cosa indicano: un pensiero interrogante, una perplessità, una espressione fisiognomica colta però da cifra interiore del pensiero. Il punto interrogativo non è, banalmente, ridotto a segno esterno di interpunzione della frase linguistica. Ecco una semplice operazione fantastica: ritenere immediatamente fungibili come oggetti i simboli astratti con cui viene figurata non la parola bensì la punteggiatura, avulsa da qualsiasi frase concreta.
Dal punto di vista della visione, Messmer, il disegnatore, da un lato considera tali simboli astratti esattamente alla stessa stregua degli altri oggetti residenti nel regime della rappresentazione, ma dall’altro li stacca da quest’ultima, li sottrae cioè al valore di segno rappresentativo. Se disegnati, tali segni sono, quindi in quanto oggetti visivi vengono da Félix riciclati come pattini da neve. In altri termini, Messmer scivola indifferentemente – una indifferenza semiotica assai pertinente e molto efficace sul piano fantastico – dal piano della simbolica rappresentativa a quello della simbolica narrativa-oggettuale: il fumetto ha la proprietà fluida di far trascorrere l’una nell’altra dimensioni comunicative diverse. Dall’oggettuale al simbolico al rappresentativo – e viceversa. È la fantasmagoria delle apparenze, che il fumetto eredita dalle tradizioni antiche dell’iconografia popolare ma che rilancia con spiccata forza originale.
Questa caratteristica è confermata dalla successiva immagine di Pogo, una striscia comico-satirica americana ideata, scritta e disegnata da Walt Kelly. Il quale proveniva dal cinema d’animazione disneyano e il suo fumetto – molto popolare nell’Italia degli anni sessanta/settanta nelle pagine della rivista «Linus» – conserva qualcosa dell’universo di Disney: una palude abitata da esseri antropomorfi, ciascuno dei quali rappresenta metaforicamente un tipo sociale dell’America puritana e capitalistica. Pogo è un dolce opossum che vive in una comunità composta da lucertole, serpenti, tartarughe, castori, coccodrilli, tutti dalle parvenze umane e, soprattutto, ognuno si esprime con una «parlata» graficamente restituita nella varia delineazione del tono, della pronuncia gergale, della forbita o dialettale enunciazione.
Fig. 4: Walt Kelly, Pogo. |
Ecco trascritto (sic!) l’esilarante dialogo fra la tartaruga e il coccodrillo, che s’intrattengono sul modo di esprimersi nella chiave visivo-scritturale del fumetto stesso:
L’autore di Pogo condensa nella grafia dei segni d’interpunzione l’operazione «meta-fumettistica» di indicare qualcosa che può essere, o non, equivalente a un segno linguistico enunciabile e pronunciabile[1]. Ma l’effetto è ricorsivo, circa la possibilità di far collimare pensieri pronunciabili a pensieri interdetti che il piano visivo raffigura ma quello sonoro deve soltanto virtualmente restituire, secondo una competenza opinabile, o attraverso una struttura che in tal modo rivela la sua completa arbitrarietà.
In altre parole, i fumetti raffigurano la scrittura, la riportano al piano che rende visiva la parola, e nel medesimo istante danno valore a un secondo piano, che conferisce alle immagini in sequenza qualcosa del piano sintattico-combinatorio della lingua scritta e parlata. Doppio piano di valenza, non solo cognitiva, in grado di mostrare una reversibilità segnica: la parola funziona come immagine e l’immagine riceve dalla catena verbale una sorta di vincolo che dà alla sequenza dei disegni una forma rigorosa, qualcosa che sia affidabile come una narrazione a «prova di bomba».
D’altro canto, questa pagina di Pogo sottolinea una differenza fra fumetto e cinema: il livello della scrittura divenuta figurata nel fumetto restituisce il senso sinestetico-percettivo del suono indotto alla percezione uditiva del lettore. Si tratta di un effetto cognitivo del «parlato» che, a cinema, risulterebbe non facilmente possibile, grazie al dato indubbio che il disegno manifesta non solo sostanze cognitive del suono (il cinema può indicarle usando direttamente il suono del parlato, con le sue intonazioni) ma anche la trama invisibile della punteggiatura (in sé stessa, questa resta un elemento del tutto astratto e inespresso dal suono, se non attraverso la mediazione di lunghe o brevi pause del discorso). Mentre dunque il fumetto può visualizzare, nel disegno, la punteggiatura, il cinema può soltanto farla intuire, ma non vedere, nelle pieghe del discorso. Il cinema potrebbe ottenere l’effetto di visualizzare la punteggiatura soltanto integrando le competenze del disegno, e grazie a quest’ultimo esplicitarla nell’immagine (come talvolta accade in alcuni grandi film d’animazione).
La forma scritto-visiva del fumetto rimescola i codici e le sostanze valide non solo a esprimere le parole, ma a configurare leggi che, per quanto provvisorie, tolgano alle immagini quei margini aleatori che altrimenti rischiano di renderle inafferrabili o interpretabili all’infinito. I fumetti sono vie maestre della fantasia perché, praticando tutte le strade, battono quelle più innovative, ma anche sanno mostrare le strade impervie che renderebbero viceversa incomprensibile l’immaginazione. Talvolta fanno questo più e meglio del cinema, perché nei comics la virtù dell’immaginazione gioca in modo trasparente con sé stessa, secondo un rapporto corretto con i segni e le loro vitali contaminazioni.
A questo punto s’incontra il bivio decisivo dei rapporti fra l’immagine e quella forma di scrittura che sa determinare la configurazione dell’immagine stessa, il suo modo di comunicare e il suo significato: la sceneggiatura.
Fig. 5 y 6: Guido Silvestri, Lupo Alberto A y Lupo Alberto B. |
Le due tavole di Lupo Alberto mostrano i diversi livelli intermedi che caratterizzano il complesso processo di produzione dei fumetti. Al suo interno, la scrittura (che serve a sceneggiare un soggetto narrativo, un’azione, una situazione, dei personaggi che parlino e si muovano coerentemente ai fini del racconto) svolge un ruolo decisivo. Essa tratteggia qualcosa che non è ancora formato, è la via di mezzo per cui l’informale diviene forma compiuta, segno conquistato e portato a un grado di chiarezza, di tratto luminoso. Ecco l’immagine inseguita dalla scrittura, estratta dalla facoltà individuale dell’immaginazione – una zona non visibile, talvolta segreta, inaccessibile in sé stessa – e fatta divenire quadro inserito in un preciso mosaico, in una valorizzazione piena del racconto audiovisivo.
I fumetti condividono questa facoltà, da sempre, con il cinema e con la fiction televisiva, segnando per questo uno spartiacque della produzione culturale moderna. Non bisognerebbe dimenticarlo. Questa zona della creatività dovrebbe piuttosto essere esaltata dagli istituti della formazione, dalla scuola di primo e di secondo grado, perché in essa convergono saperi tradizionali e saperi innovativi, le vecchie macchine della narrazione testuale e i dispositivi dell’immagine filmica e fumettistica, con le loro regole e i loro repertori formalizzati. Si tratta di una convergenza che presenta un alto quoziente di apprendimento, integrato con un forte appeal emotivo e un alto tasso di divertimento.
Lo si vede, argutamente, dalle due tavole di Lupo Alberto, dove l’autore, Guido Silvestri, si diverte a «inscenare» l’articolazione semi-grammaticale dei piani visivi: «panoramica notturna», «piano americano», «silhouette», «di quinta», «campo lungo», «voce fuori campo» ecc.; e il tutto ancora doppiamente: sia nello schizzo preparatorio della bozza di layout sia, poi, nella tavola definita, raggiungendo la qualità sapienziale di una lezione dalla quale, giustamente, ci si distacca per recarsi «a casa, a fare gli esercizi»! I fumetti agiscono quotidianamente una ricca messe di elementi di comunicazione e di conoscenza, occupando una interessante, stimolante, zona creativa dentro il sistema culturale dei media.
Scrivere cinema, scrivere fumetto
Mettere a fuoco, tramite Pogo, le questioni relative alla scrittura divenuta immagine, e inquadrare, assieme, cosa significa restituire nell’immagine il lavoro creativo messo in atto dalla sceneggiatura (attraverso la tavola di Lupo Alberto), vuol dire anche evidenziare i molti punti di contatto e, insieme, le numerose differenze tracciabili fra il lavoro e la qualità «creativa» degli sceneggiatori di fumetto rispetto agli sceneggiatori di cinema.
Il maggior punto di contatto è che, sia nel cinema che nel fumetto, gli sceneggiatori sono professionisti della scrittura visiva, lavorano cioè con i mezzi tradizionali della scrittura per intra-vedere lo statuto espressivo dell’immagine (internamente dinamica nei film, mobile ma per pose significative fissate sulla carta nei fumetti). Nel loro lavoro, la scrittura è costretta a oltrepassare sé stessa e a trasformarsi in una sorta di terra di passaggio verso la costituzione dell’immagine.
La differenza più forte fra chi scrive per l’immagine filmica e chi scrive per l’immagine del fumetto consiste invece in questo: i primi devono fornire una dimensione e una fisionomia audiovisiva all’immagine sullo schermo, e per far ciò la scrittura nel cinema ben presto scompare, trasformandosi in azione e in dialogo o suono sincrono/asincrono (a meno che non rientri nell’azione come oggetto specifico del raccontare o dell’agire: ecco i tanti film in cui la scrittura viene visualizzata sullo schermo per, ben presto, dissolversi e divenire voce o immagine…).
I secondi, ossia gli scrittori di fumetto, fanno da subito una doppia operazione (che i primi, gli sceneggiatori di cinema, possono anche risparmiarsi, per concentrarsi sulla dinamica dell’azione e sulla sua credibilità scenica) e, per una siffatta doppia operazione, la scrittura non scompare per intero nelle immagini, bensì resta e si adatta al combinato semiotico-testuale dell’immagine stessa, costituendone anzi una parte essenziale.
Dunque: molte differenze fra le due professioni sono collegate al trasformarsi della scrittura in altre sostanze semiotiche (suono, voci…), o al permanere di questa in una soluzione espressiva davvero unica, dove la scrittura, mentre funziona come strumento mediano per la sua stessa metamorfosi in una o più immagini, dall’altro ricompare nella qualità di elemento pienamente significante.
Gli scrittori di fumetto, insomma, devono, contemporaneamente, dare volume a una scena indirettamente dinamica e costituirla come immagine complessa (questa è la parentela più vistosa con gli scrittori di cinema), ma contemporaneamente hanno l’obbligo di sezionarla e di rappresentare il dinamismo e l’azione attraverso istanti privilegiati, i quali vanno fissati in immagini in sé statiche, da porre in sequenza e/o nella coabitazione e nello sdoppiamento o integrazione fra scrittura visiva e immagine. È la sequenzialità di vignette e disegni statici nel loro combinarsi con la scrittura (segno mediano che restituisce voci, pensieri, istanti spazio-temporali…) a rappresentare e costituire – ma solo come virtualità – nel fumetto il movimento. È lo sguardo del lettore a mettere in moto, rendendolo attuale, il complesso dinamismo semiotico ed espressivo del fumetto – fra continuità e discontinuità del movimento – con la capacità di strutturare il tempo di lettura e di aprirlo alle corrispondenze (o ai disallineamenti) con il tempo narrativo delle storie visualizzate nel combinato di scrittura e immagine.
Virtualità adattative
La rete che tiene il fumetto avvinto al cinema si rinsalda secondo direzioni talora imprevedibili nell’era digitale. Per esempio, nell’immaginario nipponico contemporaneo, una fitta continuità tiene reciprocamente stretti il settore produttivo delle anime (film d’animazione che riepilogano le tradizioni leggendarie dei miti orientali, ma altresì interpretano gli aspetti dirompenti della condizione tecnologica del presente) e quello dei manga (fumetti che propongono forme mobili delle figure stampate sulla carta, secondo percorsi cinetici che richiedono allenamento percettivo, stratificazione e accurata selezione delle procedure con le quali il disegno su carta accelera o rallenta il proprio dinamismo).
Vari fumetti, oggi, non solo realizzano grandi storie della figurazione audiovisiva contemporanea, ma in nuce presentano la forma, auspicabile, di un cinema del futuro, qualche volta impossibile da realizzare tecnologicamente in questo presente, ma che domani, grazie a innovazioni del dispositivo tecnico cinematografico, potrà forse trovare la giusta dimensione sui grandi schermi. È il caso di un breve episodio di una serie, Jack B. Quick, scritta da un maestro del fumetto inglese e americano, Alan Moore, e disegnata da Kevin Nowlan per gli albi di America’s Best Comics.
Nell’episodio The Unbearable of Being Light (La leggera insostenibilità della luce), apparso su Tomorrow Stories n. 2 del novembre 1999, Jack B. Quick, un giovanissimo inventore, cerca di risolvere il problema di individuare e catturare le particelle più invisibili e veloci dell’universo, i fotoni. Questi ultimi vengono concepiti da Jack – e presentati allo sguardo del lettore – come seccanti turisti – enti fatti di sola luce splendente – che invadono il territorio della sua piccola città, la infestano e la affollano di un indesiderato traffico; e che questo sia apparentemente invisibile, non significa che sia meno pericoloso! Jack inventa una «motocicletta della luce» che gli consente, in compagnia dello sceriffo della città, di inseguire i fotoni, di poterli vedere e di catturarne il diabolico, fulmineo passaggio.
Ma facendo questo, Jack e lo sceriffo superano – nella prodigiosa velocità raggiunta – le barriere del tempo, ossia le differenze fra il prima e il dopo situati nello svolgersi della propria corsa verso i fotoni. E così i due paradossalmente fissano i fotoni di sé stessi che, qualche minuto prima, stanno inseguendo la corsa dei fotoni. Questi ultimi vengono catturati, spremuti sotto rulli compressori fino a esser resi parlanti e in tale guisa giudicati da un tribunale cittadino che si pone inquietanti domande sulla natura della luce e del buio. Messi finalmente in prigione i fotoni, e dopo aver banditi dalla città quelli che potrebbero ancora attraversarla, scatta un inquietante inconveniente: la città di Jack è circondata da muri totalmente oscurati, affoga cioè in una parete di buio assoluto perché al suo interno i fotoni non possono entrare!
Fig. 7 - Alan Moore, Kevin Nowlan, Jack B. Quick (1). |
Si impone una soluzione: Jack e lo sceriffo danno ai fotoni libero accesso nella città con la promessa di non superare il divieto di 50 km all’ora. Il piccolo centro urbano è in tal modo di nuovo visibile, certo più ordinato anche se, parallelamente e conseguentemente, il tempo si rallenta, cosicché lo sceriffo aspetta più di 10 minuti il proprio riflesso sullo specchio la mattina quando si fa la barba, e le immagini di tanti Jack, «ritardate» nella loro velocità, ciondolano alle spalle di quella presente.
Il fumetto gioca con il meccanismo del ralenti – lo slow motion – delle figure disegnate, rinchiudendo in una sola vignetta le immagini del presente, del passato e, perché no?, del futuro!
Fig. 8 - Alan Moore, Kevin Nowlan, Jack B. Quick (2). |
Il fumetto di Moore e Nowlan diverte con la semplicità dell’apologo comico e con la fulminante capacità di rendere visibili oggetti altrimenti immateriali: il concetto della visione stessa, del tempo e dello spazio. I fotoni sono resi quasi antropomorfi e il paradosso della storia possiede una valenza metaforica che direttamente investe il rapporto fra componenti della visione (cos’è il vedere se non una orchestrazione della luce e del buio?) e le condizioni di possibilità delle immagini stesse. Tutto il tema generale degli enti che compongono la visibilità dello spazio e del tempo è costruito con acume e incisiva intelligenza. E così il cinema, davanti alla scommessa vinta dall’arguto enigma visivo del fumetto di Moore e Nowlan, trova un luogo ulteriore da tradurre – da «adattare» secondo le proprie coordinate tecno-semiotiche – nelle fattezze della luce che si muove, si accelera o rallenta, e che si diffonde sugli schermi.
BIBLIOGRAFIA
BARBIERI, Daniele, I linguaggi del fumetto, Milano: Bompiani, 1990.
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FREZZA Gino, La Máquina del mito en el cine y cómic, Alcalá de Henares: Marmotilla, 2017.
PIERANTONI Ruggero, Forma fluens. Il movimento e la sua rappresentazione nella scienza, nell’arte e nella tecnica, Torino: Bollati Boringhieri, 1986.
PINTOR IRANZO Ivan, Figuras del Cómic. Forma, Tiempo y Narración Secuencial, Barcelona: Aldea Global, 2017.
REY Alain, Les spectres de la bande, Paris: Minuit, 1978
NOTE
[1] Alain Rey studia approfonditamente questa medesima striscia di Pogo, rifacendosi, a sua volta, a una precedente e acuta analisi di Robert Benayoun (Rey, 1978: 85-87).